sabato 21 novembre 2009

A proposito di continuità didattica e scuola pubblica

Fra i tanti lutti che la scuola italiana celebra quest’anno, c’è anche quello della continuità didattica. Ci viene in mente perché tanti ne parlano, pochi sanno che è morta. Si tratta del principio per cui agli alunni, alla scuola, fa meglio cambiare pochi insegnanti e che è sicuramente un bene che un insegnante abbia un rapporto con una classe che sia il più possibile duraturo, sia per la trasmissione dei rudimenti di una disciplina, sia per la qualità dell’apprendimento, in cui i risvolti relazionali giocano un ruolo fondamentale. Eppure, in tutte le scuole la continuità è ormai una rarità, e perdere il proprio insegnante, se studenti, o le proprie classi, se docenti, nel passaggio da un anno all'altro, è esperienza più che frequente.

Il principio della continuità didattica è ormai costantemente minacciato da fattori diversi, molti dei quali sono l’effetto delle novità introdotte da quell’insieme di provvedimenti che va sotto il nome di riforma Gelmini. Si pensi, per la scuola elementare, a quello che è successo con la scomparsa del sistema dei moduli e con l’introduzione di un maestro prevalente: una classe che lo scorso anno aveva tre insegnanti che coprivano il monte ore settimanale, quest’anno avrà un maestro prevalente per 22 ore e una serie di altri insegnanti, tra i quali non è affatto detto che ci siano quelli dell’anno precedente, per le ore restanti; la continuità didattica è di fatto interrotta e lo sarà tutti gli anni, almeno per quanto riguarda i maestri che ruotano intorno a quello prevalente. Per quanto riguarda la scuola secondaria di primo e secondo grado è invece il passaggio di tutte le cattedre a 18 ore di lezione a creare un principio costante di discontinuità. Inoltre, in tutti gli ordini di scuola, l’aumento del numero degli alunni per classe e la conseguente riduzione delle cattedre hanno creato e continueranno a creare insegnanti soprannumerari che saranno costretti a lasciare la scuola in cui si trovano e dunque inevitabilmente le proprie classi.

Alla luce di queste osservazioni ci sembra quanto meno riduttivo imputare la mancanza di continuità didattica solo alla mobilità dei docenti, come ha fatto in alcune dichiarazioni la Ministra, dicendo di voler limitare la mobilità del personale, in modo da ridurre la girandola delle cattedre, o come fa la Fondazione Agnelli che, in uno studio recente, arriva ad identificare il tasso di mobilità con il tasso di discontinuità didattica d’istituto tout court e propone di disincentivare gli insegnanti alla mobilità. Da un lato, come si è visto, la mobilità dei docenti è spesso obbligata e d’altra parte bloccare i trasferimenti non servirebbe a ridurre la discontinuità che è data da una sorta di ‘mobilità interna’ dei docenti che ruotano sulle classi.

Nella nostra esperienza quotidiana, il diritto degli studenti e il diritto dei docenti sono dalla stessa parte, dalla parte della scuola pubblica: le classi che perdono i propri insegnanti e gli insegnanti che perdono le proprie classi sono vittime di alcune decisioni prese proprio dalla Ministra che si erge a paladina della continuità. Di fronte ai cambiamenti in corso nella scuola italiana, sentiamo l’esigenza di una riflessione che parta dalla realtà che si è determinata in questi ultimi anni, e provi a ricostruire un sistema di valori al cui centro ci sia un’idea di scuola come ‘lo’ spazio di crescita della società, esercitando una critica radicale all’idea di scuola subalterna, aziendale e nemica della cultura come quella che si sta avanzando.

Simona Luciani, Maria Cristina Zerbino


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