martedì 22 marzo 2011

INVALSI: PERCHE’ NO

Sono ormai diversi anni che le scuole italiane vengono sottoposte ai test INVALSI, un sistema di valutazione sostenuto da governi di ogni colore e raccomandato da numerose direttive europee.

I risultati statistici delle prove OCSE-PISA, presentati con grande risalto giornalistico, vengono portati a conferma della necessità di introdurre un sistema di valutazione oggettivo della qualità degli apprendimenti (che è poi come dire della qualità degli insegnamenti, cioè dei docenti). I giornali non danno invece nessun risalto a quegli studi che mettono in discussione la scientificità delle prove OCSE-PiSA e dunque la loro validità statistica (vedi bibliografia).

Intanto di anno in anno le prove si sono fatte sempre più invasive: dall’obbligatorietà del quiz in terza media introdotta dal Ministro Fioroni all’allargamento della rilevazione a tutte le classi di tutte le scuole italiane, fino alla somministrazione di un “questionario per lo studente” al limite della schedatura di massa. Tale pervasività ogni docente può misurarla nei libri di testo che offrono in misura sempre maggiore strumenti di allenamento ai quiz.

Il tutto nella completa disinformazione dei genitori e nello scetticismo dei docenti che non è mai riuscito però a diventare una chiara e aperta contestazione agli INVALSI e a ciò che essi rappresentano.

Perché gli INVALSI sono pericolosissimi: essi rappresentano uno strumento strutturale e decisivo nella direzione della privatizzazione della scuola italiana e stravolgono quella che storicamente è stata la funzione della nostra scuola pubblica.

1) L’approccio didattico, di stampo anglosassone, è diametralmente opposto a quello della scuola italiana, con particolare riferimento al segmento della scuola primaria: all’insegnamento il più possibile individualizzato, che tiene conto dell’universo sociale-culturale-affettivo dell’allievo, si sostituisce una prova oggettiva asettica, che annulla, di colpo, la soggettività non solo dell’alunno, ma anche dell’insegnante; la relazione intersoggettiva, basilare in ogni sano rapporto pedagogico, è sostituita da una performance e una valutazione oggettive.

2) La scuola pubblica italiana si distingue a livello internazionale per l’integrazione degli alunni diversamente abili e per aver abolito le scuole speciali e le classi differenziali (L.517/’77). Vengono così riconosciuti sia il diritto allo studio per tutti, sia la diversità come valore. La decisione di far partecipare gli alunni disabili alle prove è rimessa alla scuola. Nel caso che questa decida per la partecipazione, i risultati dovranno essere elaborati in maniera a sè stante così da non incidere sul risultato medio della scuola o della classe. Ciò significa che la disabilità non rientra nel sistema di valutazione INVALSI e che, quindi, gli alunni disabili divengono inesistenti, così come viene ignorato l’impegno delle scuole affinché essi raggiungano le piene competenze secondo le loro potenzialità. Inoltre, è previsto che gli alunni con diagnosi di DSA (dislessia) partecipino alle prove nelle stesse condizioni degli altri!

3) Solo il fascismo dal 1929 era riuscito ad imporre l’assurdo di identici percorsi didattici in tutta la nazione. L’apprendimento non si può valutare allo stesso modo nei diversi contesti, proprio per questo gli insegnanti si confrontano e producono molteplici offerte didattiche, cambiano idea, ascoltano gli allievi e le allieve, ci parlano. Questa è la vera didattica, flessibile, individualizzata, che tiene conto dei diversi contesti: la standardizzazione è nemica dell’insegnamento di qualità.

4) Le prove INVALSI hanno un potente effetto retroattivo: alle prove “ci si prepara” e ore di buona didattica, vengono sostituite da allenamenti ai quiz; questo accade perché i docenti ben sanno che saranno loro ad essere valutati e dunque, per non “fare brutta figura” modellano la loro programmazione in modo da addestrare il più possibile la loro classe alla modalità a quiz. Così ad esempio crescono le prove a crocette, stanno tornando in auge le nomenclature grammaticali imparate a memoria come fino agli anni Sessanta. Ciò non ha alcun senso, se non quello di scimmiottare prove di bassa qualità preparate da persone lontane dalla scuola reale e dalla sua evoluzione

5) Le prove non misurano la buona didattica né il buon insegnante: un buon insegnante è colui che, rispettando i tempi e le attitudini dei suoi allievi, riesce ad appassionarli alla sua materia, riesce a coinvolgerli e a motivarli nello studio; tutto questo non si misura;

6) Trasformano dall’interno lo statuto delle discipline: nel giro di qualche anno le materie interessate dall’INVALSI hanno cambiato natura; pensiamo ad esempio alla prova di italiano: il tema ha perso centralità a favore della comprensione del testo; ad una prova in grado di restituire, più di ogni altra, la complessità dello studente (competenze, saperi, soggettività), si preferisce ormai una prova completamente decontestualizzata: un brano che solo per pudore viene scelto tra i brani d’autore, senza che di quell’autore importi né la poetica né il momento storico in cui ha vissuto; anche la matematica, disciplina anch’essa complessa, si sta rapidamente riducendo ad un molto più applicativo problem solving, minando appunto lo statuto stesso della disciplina.

7) Scientificamente sono un fallimento. Un esempio: quelli fatti svolgere alle secondarie di primo grado lo scorso anno hanno dato risultati che differivano da quelli conosciuti in base alle ricerche Pisa. Come rimediare? Gli astuti tecnici dell’Invalsi hanno deciso di elaborare un coefficiente per cui moltiplicare i risultati inverosimili, in modo da trasformarli in verosimili! Incredibile ma vero!

8) Sono dannosi emotivamente per i bambini e le bambine. L’insegnamento della lettura si basa sul rispetto dei tempi dei bambini. Ognuno ha i suoi ritmi ed è doveroso rispettarli. Invece per la classe Seconda della scuola primaria (7 anni) l’invalsi propone la prova cronometrata di lettura, cronometro alla mano. Nell’insegnamento della scrittura i bambini usano la matita, affinché l’errore non sia irrimediabile e non diventi un dramma emotivo; invece l’Invalsi obbliga all’uso della penna biro non cancellabile. Ma in qualunque segmento di scuola, lo stress emotivo è fortissimo: le prove sono pensate per risposte in velocità, si tratta di prove a tempo (1/2 ora o un’ora) a malapena sufficiente a rispondere a tutti i quiz. Esattamente il contrario di ciò che un buon insegnante non smette mai di raccomandare: “Non bisogna avere fretta nelle risposte, bisogna riflettere bene e a lungo, ecc.”. Nelle scuole inglesi lo “stress da QUIZ” è ormai riconosciuto anche dagli psicopedagiogisti.

9) Sono la premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti. Dai diversi documenti dell’Invalsi emerge chiaramente che questa schedatura di bambini, docenti e scuole è finalizzata in prospettiva a differenziare le retribuzioni dei docenti. Sia chiaro: nel progetto di sperimentazione presentato dalla Gelmini gli INVALSI, al momento, servono a misurare le scuole nel loro complesso, mentre per premiare il singolo docente è previsto un nucleo interno di valutazione che valuterà dati non meglio precisati. Ciò che accade negli altri Stati ci porta a pensare che anche in Italia l’obiettivo sia quello di piegare la libertà d’insegnamento alla logica delle competenze e dei quiz e di farlo utilizzando gli aumenti stipendiali. Ovviamente, come ben sa chi vive la scuola, non verrà premiato l’insegnante migliore, bensì quello che si adatterà più agilmente a questa didattica burocratica e di regime. Dobbiamo tener presente che il progetto di legge Aprea, collegato al merito nel pubblico impiego di Brunetta, prevede la diversificazione delle carriere (cioè degli stipendi dei docenti); uno dei parametri sarà “l’efficacia dell’azione didattica e formativa”; Quando il nostro stipendio dipenderà dai risultati delle prove INVALSI, allora la scuola italiana si trasformerà in una palestra di addestramento ai quiz.

10) Esasperano la competizione: spingono gli alunni a rivaleggiare tra di loro, gli insegnanti a mettersi in competizione anziché scambiarsi le buone pratiche, le scuole saranno sempre più in concorrenza tra loro, nel gioco al massacro dell’accaparramento di “clienti” attirati con progettualità tanto altisonanti quanto inconsistenti.

11) Non servono a migliorare la qualità della scuola: se qualcuno pensasse che, una volta arrivati i risultati delle scuole, il ministero se ne servisse per aumentare i finanziamenti per le scuole risultate più deboli, sarebbe del tutto fuori strada. Nella meritocrazia succede esattamente il contrario: avranno più soldi le scuole che otterranno risultati maggiori; e che faranno, ci chiediamo, quei bambini che, casualità vuole, sono finiti in una scuola di serie B o C? Se la terranno, alla faccia del diritto per tutti a una scuola di qualità. Certo è che il loro titolo di studio varrà di meno, come in ogni privatizzazione che si rispetti. Tutto questo, malgrado nel documento di Sintesi dell’INVALSI sulla valutazione degli apprendimenti dell’anno scolastico 2009/2010 l’ampia disuguaglianza dei risultati scolastici nelle regioni meridionali venga associata più all’alta disuguaglianza del reddito che alle caratteristiche strutturali dei singoli sistemi scolastici. Si può facilmente dedurre che ci sia la volontà di lasciare indietro chi è già è in situazione di disagio economico e socio-culturale, di non intervenire per diminuire la dispersione scolastica, ma di

invertire il diritto costituzionalmente garantito di offrire a tutti le stesse opportunità formative a favore della premialità.

12) Le prove non sono anonime: le prove non sono affatto anonime e permetteranno una tracciabilità delle performance dai 7 anni in su: di fatto una schedatura delle competenze di massa e prolungata nel tempo. Sono anni che si affannano a dire che i quiz sono anonimi e che hanno una finalità puramente statistica; e allora a che serve un codice che collega ogni prova a un bambino ben preciso? Si tratta di una tracciabilità che non ha nessuna utilità a fini statistici: se voglio fare un’indagine davvero anonima, semplicemente entro nelle classi, distribuisco i quiz e poi li analizzo; non mi interessa che quel quiz lo abbia fatto un bambino o un altro; da un punto di vista statistico mi interessano l’età, la collocazione geografica della scuola, il numero di bambini per classe, ecc, MA NON IL NOME DEL BAMBINO: è un elemento non statistico. Ma, dicono, questi sono dati sensibili che restano custoditi dalle scuole; perché? Che se ne fanno le scuole? Se non se ne fanno niente, allora tanto vale non abbinare la prova al singolo. E’ ovvio invece che vorranno in qualche modo utilizzare questa tracciabilità, magari per misurare, come dicono loro, il valore aggiunto delle scuole e dei singoli docenti. La tracciabilità inoltre permetterà, appena lo decideranno, di costruire finalmente quel portfolio delle competenze lungo l’arco della vita iniziando dai sette anni.

fonte: www.cobas scuola.it